Quando si porta uno dei cognomi più noti della musica italiana, le aspettative possono rivelarsi un peso insostenibile. Eppure una delle qualità del 25enne Matteo Bocelli, che colpiscono subito, è un’innata serenità, perfetta emanazione di quelle maniere garbate che hanno contribuito a rendere suo padre Andrea un’icona di musica e di stile celebre in Italia e nel mondo.
Sembrava colpito anche il pubblico di Zurigo lunedì sera al Teatro Volkshaus, anche se la sala non era gremita fino in fondo.
Per i Bocelli la musica è una questione di famiglia. Proprio il padre lanciò la carriera di Matteo cinque anni fa con il duetto su «Fall on me», singolo estratto dall’album Sì che debuttò alla prima posizione della Billboard 200.
Un esordio in grande stile, insomma. Adesso Matteo Bocelli è pronto a volare con le proprie ali. E lo fa a modo suo, con un suo stile: nelle dodici tracce dell’album «Matteo» uscito lo scorso 22 settembre (Capitol Records / Universal Music) l’impostazione lirica del padre cede il posto a un approccio marcatamente pop, fra ballad alla Ed Sheeran (suo grande idolo) e brani uptempo.
Come è arrivato a trovare il suo sound? In che modo sta costruendo la sua carriera? Italoblogger ha incontrato Matteo Bocelli a Zurigo subito dopo il concerto.
Risale a cinque anni fa il tuo “battesimo” artistico, ovvero il singolo «Fall on Me» in duetto con tuo padre. Cosa ha rappresentato quel momento e come sono stati questi ultimi cinque anni della tua vita?
«Fall on Me» è stata indiscutibilmente un inizio importante, perché di fatto è stata la scintilla che ha fatto partire tutto e perché sono stati anni ricchi di emozioni e belle esperienze. Mi ha aperto molte porte, a partire dalla possibilità di siglare subito con la Capitol Records a Los Angeles. Il team mi ha supportato (e sopportato) sin da subito, permettendomi di lavorare al meglio sul progetto, fino ad arrivare a questo primo album. «Fall on Me» è stata un’esperienza unica, adesso è tempo di continuare con le mie gambe e iniziare un nuovo percorso con un progetto che sento totalmente mio.
Nonostante ciò che uno si potrebbe aspettare dal tuo cognome, il tuo progetto ha una dimensione marcatamente pop. In che modo negli anni hai messo a fuoco il sound che volevi ottenere?
Ho sempre respirato opera e musica classica, ma la musica che cantavo a casa era il pop. Ma questo non significa che poi tu sappia esattamente cosa vuoi. C’è bisogno di lavorare sulle cose, di provare, di sperimentare. Questi anni sono stati molto utili per trovare la quadra che più mi desse soddisfazione, in cui mi trovassi a mio agio. In questi anni abbiamo scritto un centinaio di brani e da questi ne abbiamo selezionati quattordici.
Dal punto di vista del pop quali sono i tuoi idoli di ieri e di oggi, italiani e stranieri?
Dico sempre Ed Sheeran. Oggi è facile dirlo, perché è l’artista numero uno al mondo. L’artista non è soltanto la sua musica ma anche il suo messaggio e la persona stessa. Ed non è solo un artista incredibile ma è anche una bella persona, perlomeno è quello che ho percepito quelle volte che l’ho visto di persona. Mi ha colpito molto e ad oggi potrei definirlo un idolo.
Tendenzialmente ho sempre ascoltato più la musica del passato: Lionel Ritchie, Elton John, Queen… Ma anche musica italiana, ovviamente. Mio padre ha fatto pianobar fino all’età di 30/35 anni, quindi spesso a casa suonava tutti quei pezzi al pianoforte e mi ha trasmesso quella passione: Tenco, De Crescenzo, Concato, Califano.
«Chasing Stars», scritta da Ed Sheeran con il fratello Matthew, parla del rapporto fra loro e il padre: sembra quasi scritta apposta per te.
Ho incontrato Ed in occasione dell’uscita di «Perfect Symphony», il duetto che ha fatto insieme a mio padre. Lì ho avuto la possibilità di parlarci un po’, mi ha mandato poi un paio di idee. «Chasing Stars» era quella che ha colpito maggiormente me, il mio manager e gli amici a cui faccio sentire la mia musica. Ci hanno colpito la melodia e il messaggio, che calzava a pennello sulla mia storia.
Fra gli autori delle canzoni c’è Dutch Nazari, che ha firmato «Resti di un’Estate». Piacevole questa inaspettata apertura verso il mondo “indie”, che uno non si aspetterebbe in un disco di Matteo Bocelli.
Un album deve avere un certo andamento, non dev’essere interamente inquadrato su un unico sound. Quindi se trovi un brano che leggermente si allontana dalla linea principale del disco, secondo me aggiunge qualcosa. Quella è una canzone leggera ma arriva. Questo mi ha colpito, ho pensato che fosse un pezzo giusto per il progetto.
I pezzi sono per la maggior parte cantanti in inglese ma alcuni sono in italiano. Come mai questa scelta di usare entrambe le lingue?
Quello è uno dei punti fondamentali: avendo siglato con Capitol in America devo fare anche musica in inglese. Ma il motivo stesso per cui ho siglato con loro è che io sono cresciuto cantando sia in italiano che in inglese. È sempre stato il mio desiderio cantare in inglese, quindi sapevo che quell’etichetta mi avrebbe dato molte opportunità di collaborazione con grandi autori internazionali. Io mi sento a mio agio a cantare sia in inglese che in italiano.
Nel 2019 ci fu la tua “prima volta” sul palco dell’Ariston, dove andasti come ospite in duetto con tuo padre. Adesso c’è un tuo album: è la volta buona per tornare a Sanremo come concorrente?
È una domanda che mi fanno da allora. Io capisco che in Italia Sanremo abbia un peso importante, che sia il massimo a cui un artista può aspirare. Non nego che anche per me sarebbe una grande emozione salire su quel palco non affiancato a mio padre come ospite ma in prima linea come concorrente. Ma secondo me bisogna andarci quando ne sei veramente convinto, con un brano che davvero ti identifica.