La Spagna come l’Italia risulta essere negli ultimi anni instabile, molto più dell’Italia. Per la terza volta in meno di quattro anni gli spagnoli sono chiamati a rinnovare i 350 seggi delle “Cortes Generales”.
Il leader del partito socialista, Pedro Sanchez, è arrivato al governo meno di un anno fa, nel giugno 2018, dopo aver fatto cadere il suo predecessore alla guida del governo, il popolare Mariano Rajoy. E a febbraio scorso è toccato a lui dover fermarsi allo stop imposto dagli indipendentisti e dai partiti di centrodestra al momento del varo della Finanziaria 2019. Quindi nuovo voto.
I sondaggi indicano il Psoe (Partito socialista spagnolo) al 31,5 per cento: circa 50 seggi in più rispetto a quelli di cui dispone ora in Parlamento. Troppo pochi ancora. Se Sanchez vorrà restare alla Moncloa, dovrà allearsi con le formazioni nazionaliste perché un’eventuale alleanza con la sinistra radicale di Pablo Iglesias, dato al 12%, non sarà sufficiente.
In netto calo il Partito popolare del conservatore Pablo Casado per lo scandalo di corruzione nel quale è rimasto coinvolto. Anche la destra radicale di Albert Rivera, Ciudadanos, è dato attorno al 13 per cento.
Tutti e quattro i leader dei partiti protagonisti della politica nazionale e candidati premier sono espressione della nuova generazione di quarantenni arrivati al potere negli ultimi anni. Al centro della sfida politica i temi non tanto dell’economia come in passato, ma quelli identitari. La Spagna, Paese di grandi differenze linguistiche e culturali tra le varie aree territoriali, è alla ricerca di un nuovo collante nazionale.