Rafforzare la rete dell’italianità tra gli italiani all’estero

Con oltre 7 milioni di iscritti all’AIRE sparsi in tutto il mondo, l’Italia non può più permettersi di vedere questi cittadini come un’appendice, una voce distante del bilancio nazionale.

In un tempo in cui il mondo sembra accelerare verso l’individualismo e la frammentazione, gli italiani all’estero sentono più che mai la necessità di coesione, appartenenza e riconoscimento. Vivere lontani dalla propria terra significa convivere ogni giorno con una doppia identità: quella che si costruisce nel Paese d’accoglienza e quella che ci portiamo dentro, come eredità culturale, affettiva e storica. Quando si crea uno scollamento tra queste due dimensioni, il rischio è lo smarrimento. Ed è proprio in questi momenti che dobbiamo tornare alle origini, a ciò che ci tiene uniti: l’associazionismo.

L’associazionismo non è solo una struttura organizzativa o un insieme di eventi: è una forma di resistenza culturale. È un modo per continuare a sentirsi parte di un tutto, per custodire la memoria collettiva, per trasmettere ai giovani i valori, la lingua, le tradizioni, e quel senso di italianità che non si misura solo con i documenti, ma con il cuore. Anche se molte associazioni storiche chiudono, ciò che non può e non deve venir meno è lo spirito che le ha generate: la volontà di restare comunità.

Con oltre 7 milioni di iscritti all’AIRE sparsi in tutto il mondo, l’Italia non può più permettersi di vedere questi cittadini come un’appendice, una voce distante del bilancio nazionale. Sono una risorsa viva, un’estensione dell’identità nazionale, un ponte tra culture, economie e visioni. Ma per far sì che questa rete sia realmente attiva e solida, occorre ripensare radicalmente gli strumenti di rappresentanza.

Oggi i Com.It.Es. e il CGIE, per quanto nati con nobili intenzioni, faticano a interpretare i bisogni delle nuove generazioni e dell’emigrazione contemporanea. Le forme della rappresentanza non possono rimanere cristallizzate mentre il mondo cambia. Occorre riformarle con coraggio, restituendo loro dinamismo, operatività e un legame reale con le comunità. I Com.It.Es., ad esempio, devono essere messi in condizione di collaborare a stretto contatto con la propria comunità, non come entità burocratiche, ma come veri e propri nodi vitali di una rete. Il dialogo con i Consolati deve essere continuo, sinergico, fondato su obiettivi comuni: solo così si potrà trasmettere all’esterno un’immagine unitaria, autorevole e rispettata.

Il CGIE, dal canto suo, ha bisogno di essere riconosciuto dallo Stato per quello che realmente rappresenta: la voce organica e complessa dell’emigrazione italiana nel mondo. È da lì che passa la possibilità di ascoltare, comprendere e rispondere alle istanze dei nostri connazionali. Ma per farlo, deve essere messo nelle condizioni operative e politiche adeguate. Non basta più che esista: deve contare.

Oggi, purtroppo, la situazione è diventata insostenibile. Gli italiani all’estero sentono il peso dell’invisibilità. La distanza non è solo geografica: è emotiva, culturale, istituzionale. L’integrazione nei Paesi d’accoglienza – se non accompagnata da un dialogo aperto con le istituzioni italiane – rischia di trasformarsi in assimilazione. E con il tempo, l’italianità si sbiadisce, si perde, si riduce a un ricordo sbiadito nei racconti dei nonni.

Ma l’italianità non è folklore. Non è una cartolina, un piatto di pasta, o una canzone nostalgica. È coscienza. È sentirsi parte di una storia millenaria, è portare nel mondo un modo unico di guardare alla vita, di costruire relazioni, di creare bellezza. E quando questo legame si spezza, si perde molto più di una lingua o di una tradizione: si perde un pezzo della nostra anima collettiva.

Forse è proprio questo che, in modo implicito o inconsapevole, alcuni governi hanno accettato: trasformare gli italiani all’estero in semplici consumatori del Made in Italy, in veicoli di promozione turistica, in numeri da esibire nelle statistiche. Ma un popolo non si misura con le esportazioni, si misura con l’identità. E l’identità va nutrita, ascoltata, rispettata.

Finché ci sarà anche un solo italiano nel mondo che si sentirà tale nel profondo, quel tricolore continuerà a sventolare con dignità. Non come simbolo retorico, ma come bandiera viva di un’appartenenza che chiede solo di essere riconosciuta. Ed è nel suo nome – nel nome di milioni di italiani che ancora credono, sperano e costruiscono – che dobbiamo rafforzare questa rete. Non solo per non dimenticare, ma per continuare a vivere da italiani, ovunque siamo.