Domenica 21 aprile si è trasformata in un incubo per la popolazione dello Sri Lanka, quando simultaneamente in tre chiese e tre hotel sono avvenute otto esplosioni che hanno spezzato la vita a 290 persone, alle quali aggiungere oltre 500 feriti – un bilancio tragico. Tra le vittime tre dei quattro figli di un miliardario Danese, ferito un giornalista italiano.
Sono 24 al momento le persone sospettate arrestate. Il governo si sbilancia: per loro sono stati i membri del National Thowheed Jamath (jihadisti locali) con aiuti da parte “di una rete internazionale”. Sono state avviate anche indagini sulle eventuali carenze dell’intelligence. Il governo era stato informato su possibili attacchi ma a quanto pare i ministri non sono stati avvisati.
Ma perché prendere di mira la minoranza cattolica, formata dal solo 7,5% della popolazione, prevalentemente buddista? Lo Sri Lanka è reduce da una ventennale guerra civile che sembrava conclusa quasi dieci anni fa, ma non tutti i problemi di coabitazione sono spariti nel delicato equilibrio etnico e religioso del paese, evidentemente.
È per ora incomprensibile la motivazione che ha spinto gli autori di questi attacchi, mentre l’Isis interpreta questi attentati come vendetta per i due attentati avvenuti poco tempo fa in Nuova Zelanda, dove in due moschee un cecchino ha ucciso a sangue freddo 50 persone.
Anche se il motivo è incerto, quello che invece risulta evidente è che l’attacco è stato organizzato minuziosamente da un’organizzazione. I Kamikaze si sono fatti saltare simultaneamente e questo richiede coordinamento e conoscenze tecniche che non tutti possiedono.
In ogni caso, la vicenda ha risvolti negativi sull’economia e sul turismo del paese ma non solo. Per tutti è sdegno, tristezza e partecipazione.