Paola Cortellesi per il suo esordio come regista non se ne sta zitta come vorrebbero invece molti degli uomini protagonisti del suo film. “C’è ancora domani”, presentato in anteprima a Zurigo e dal 4 aprile nelle sale cinematografiche, è infatti una pellicola che racconta come, nell’Italia del primo dopoguerra, le donne fossero ancora considerate proprietà del marito.
Abbiamo intervistato Paola Cortellesi il giorno della prima in Svizzera tedesca. In serata, salita sul palco del cinema Blue Corso a Zurigo dopo la proiezione, ha ricevuto una standing ovation che conferma come questo film continui a coinvolgere, dopo aver battuto ogni record al botteghino in Italia.
Paola, benvenuta a Zurigo. Conoscevi già la Svizzera?
“Ci ero stata ma molti anni fa e ho anche fatto delle cose interessanti. Ero stata a Lugano e a Bellinzona a lavorare a teatro”.
Il film parla dei diritti negati alle donne però anche di diritti acquisiti. Da dove arriva il desiderio di realizzare un film contemporaneo ma con temi di attualità?
“Ho voluto realizzare un film contemporaneo ambientato nel passato, perché penso che purtroppo molte cose siano rimaste le stesse. Naturalmente ci sono stati dei progressi, sono cambiati i diritti, sono cambiate le leggi, ma non del tutto, non nella mentalità ».
“C’è ancora domani” è ambientato 80 anni fa, ma le cronache recenti ci dicono che tristemente anche i ragazzi di oggi continuano a ripetere certi comportamenti. Hai una speranza nel futuro?
«Ce l’ho, naturalmente. Anche nel film abbiamo raccontato molti personaggi positivi: il marito di Marisa, Peppe, o come Nino, che è un uomo buono, retto, leale. Ma anche gli uomini peggiori che raccontiamo in questa storia sono vittime di una diseducazione, di un’educazione alla prevaricazione. Questo è qualcosa che poi ci si tramanda. È incredibile che ci sia ancora adesso questa cultura della prevaricazione e del possesso. Come ci dicono le cronache orribili degli ultimi mesi ogni 72 ore in Italia c’è un femminicidio. Di solito si tratta di una donna che stava cercando di emanciparsi. Dall’altro lato c’è un uomo che non accetta un rifiuto, che non riesce ad accettare di essere lasciato. Ma non volevo assolutamente additare gli uomini come degli assassini, perché insomma, non lo sono”.
I maschi degli anni ’40, nel film, dai più anziani ai più giovani, sottomettono e sminuiscono le donne. Pensi che oggi le nuove generazioni siano più equilibrate?
«Dipende da dove provengono. Io ho disegnato un cerchio: Ivano, operaio, è figlio di un padre tossico. Il “ragazzo di buona famiglia” Giulio è figlio di un padre che magari non è come Ivano, ma da lui ha imparato che, una volta che la donna diventa sposa, è di sua proprietà. Volevo raccontare la questione del possesso, che non è legata solo alla cultura dell’epoca».
Sei riuscita a smorzare il dramma della storia del film con dei momenti di ironia improvvisi. Questo crea sorpresa e anche forse una riflessione più amara su quello che stiamo vedendo…
«Detesto la retorica. Questo vale sia per le scene d’amore che per i drammi. E questo film è un dramma. L’unico modo che conosco io per smontare un climax è quello dell’ironia. È tutto voluto: fin dalla sceneggiatura. È il modo in cui mi piace raccontare: forse il mio senso del ridicolo non mi consente di vivere fino in fondo un momento iper romantico o iper drammatico. Lo devo spezzare con qualcosa. Lo faccio sempre, sia come interprete che come sceneggiatrice. In questo caso ci siamo messi d’impegno perché accadesse ogni volta».
Il fim ha ha suscitato discussioni e molta partecipazione. Che risposta ti sei data?
«Che è una storia che ci riguarda tutti, con sfumature diverse di patriarcato. Magari non tutte hanno vissuto un rapporto così tossico con un uomo, o non tutti i figli hanno visto il proprio padre picchiare la madre. La maggior parte ha sentito un insulto, un “non vali niente”, un atteggiamento di sopraffazione, accettato per troppo tempo e che magari adesso risale. Ma chi non ha avuto queste esperienze in famiglia? Io non so di percosse nella mia, ma di “sta zitta” ne ho sentiti. Non ci sono solo i mostri, cattivi sempre. Vedo tanti uomini al cinema, uno mi ha detto: “Mi vergogno di far parte di questa categoria”, un altro: “Ho vissuto queste cose, ero bambino e si andava nell’altra stanza per non vederle”. C’è un comune denominatore evidentemente, se c’è tutta questa emozione».
Ma l’educazione nasce a scuola. Peccato che la scuola italiana non preveda un percorso di educazione all’affettività. Di recente una proposta per introdurre l’educazione sessuale è stata derisa in Parlamento…
“Certo, è quello che dico da molto tempo. L’educazione all’affettività e al rispetto di sé andrebbe iniziata alla scuola dell’infanzia, per proseguire più avanti con l’educazione sessuale, il tema del corpo. È uno scandalo che non sia previsto dal ministero”.
All’inizio del film ti si vede in una lunga camminata. Cosa rappresenta?
“Ci racconta cosa sta accadendo in quel momento, Cioè in che momento siamo noi. Capiamo più o meno l’ambientazione di quel periodo. C’è il Signore che chiede l’elemosina, ci sono delle belle ragazze. Le signore che vendono il pane al mercato nero. Quello che si pettina per strada, il barbiere. Un inizio piano piano per ambientare questa storia”.
Nonostante il film sia in bianco e nero, ambientato negli anni 40 e in dialetto romano, è sicuramente un film contemporaneo (per i temi) e popolare (per il mezzo e la semplicità con cui si parla di temi delicati). Un film che consigliamo a tutti. Il film ha un cast importante: Paola Cortellesi (protagonista), Valerio Mastandrea (il marito della protagonista), Emanuela Fanelli (la migliore amica), Vinicio Marchioni (l’amore vero della protagonista). Attraverso il film la regista ha sostenuto anche la “Fondazione Una Nessuna Centromlia”, raccogliendo fondi per i centri antiviolenza e le case rifugio.
Testo: Bruno Indelicato e Francesco Troisi | Foto: Ricci Varrica